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Lettera a Galimberti tratta da D di Repubblica di Sabato 7 Novembre 2015

“Mi sento una scimmia! Ho lo stesso margine di autogestione di una scimmia ammaestrata. E’ il mio lavoro, rispondo al telefono. Tutto il tempo. Sempre e comunque, tutto il giorno, tutti i giorni. Non mi allontano dalla postazione, non mi allontano, non parlo con il collega, a meno che non sia il telefono a deciderlo, interrompendo, per il tempo che è lui a stabilire, il suo martellare perpetuo. Sono totalmente eterodiretta. Mi limito a seguire e applicare procedure standard, talvolta approssimative e nebulose. E’ come stare su una catena di montaggio mentale anziché manuale: una chiamata dietro l’altra, meccanicamente, senza distrazioni, interruzioni e tentennamenti. Ogni cosa è cronometrata: la durata della chiamata, la durata della post-chiamata, la durata delle pause (quindici minuti esatti). Non c’è gesto nella giornata che non venga misurato. Velocità, brevità, e quantità devono essere gli obiettivi a cui tendere: più chiamate smaltisco, meno tempo ci impiego, migliore è la mia prestazione. Non per niente la tanto decantata efficienza che si richiede è un tipico attributo delle macchine. Ed è d’obbligo fingere che io sia molto più simile a una macchina che esegue un compito, piuttosto che a un essere umano con esigenze più complesse, ma potenzialmente destabilizzanti per il sistema”.

Una lavoratrice di call center

DOBBIAMO PORTARCI ALL’ALTEZZA DEL NOSTRO COMPUTER?

In questa lettera ci sono rabbia, rassegnazione, speranza, ci sono intelligenza, decisione, lucidità: tutti ingredienti di una persona ancora piena di vita, ma messa in gabbia e invitata a prendere spunto, nel proprio lavoro, dal funzionamento delle macchine.

E’ il paradosso dell’età della tecnica, osserva Galimberti: “L’uomo deve portarsi all’altezza delle prestazioni del suo computer se vuol salvare il posto di lavoro, condizione del suo vivere. Siamo a questo”.

Almeno funzionassero bene, i call center, almeno fornissero risposte adeguate alle domande del cliente. Almeno funzionassero bene una marea di servizi gestiti in questo modo. Il più delle volte gli operatori di call center forniscono risposte da scimmie ammaestrate non potendo gestire alcuna situazione che non sia già stata prevista, con l’esito che il cliente risulta molto spesso insoddisfatto.

A chi giova questo sistema? La proceduralizzazione, l’ottimizzazione dei processi, la necessità di avvicinare sempre di più il funzionamento della persona a quello di una macchina sta riducendo in poltiglia le risorse e la capacità di ragionare, dissolvendo le motivazioni e disumanizzando le relazioni. E non serve né a far funzionare meglio aziende, né a migliorare soddisfazione dei clienti e livello dei servizi.
 

LE RISPOSTE DELLA SCIENZA

Torniamo allo scopo di questo blog, ovvero fornire risposte o spunti scientifici alla gestione delle persone nelle organizzazioni.

A questo proposito, mi chiedo che effetto abbia, sul cervello delle persone, la percezione di mancanza di autonomia e di controllo sul proprio lavoro.

Cosa accade a livello neurologico quando le persone svolgono lavori totalmente parcellizzati e proceduralizzati e dove il margine di autonomia e di percezione di controllo personale sia quasi del tutto inesistente?

Ecco cosa dicono le ricerche: quando ci sentiamo in situazioni come quella descritta nella lettera, in cui abbiamo scarsa possibilità di controllo e poca autonomia, il cervello, in automatico, attiva un circuito neurologico che il neuroscienziato Evian Gordon ha definito di “risposta a minaccia”: il sistema limbico si posiziona in uno stato di allerta e di difesa, paragonabile a quando sentiamo dei passi nel buio. Aumenta la produzione di cortisolo e adrenalina (inizialmente) e aumenta il consumo di ossigeno nel cervello e di glucosio nel sangue.
Tutto questo, distrae risorse preziose per l’elaborazione cognitiva, in questo esempio vengono sottratte risorse alla memoria di lavoro che, sotto pressione, riduce la propria normale capacità e quindi la possibilità di elaborare risposte creative o semplicemente articolate.

Inoltre, vogliamo parlare dell’effetto che ha il senso di svilimento che questo modo di lavorare produce? Ormai svariate ricerche confermano che il nostro cervello mette sullo stesso piano le esigenze sociali e quelle di sopravvivenza, ad esempio avere fame o essere ostracizzati, esclusi dal proprio gruppo di riferimento, attivano le stesse risposte neurologiche.

Il dolore sociale, che deriva dal sentirsi esclusi, svalutati e poco considerati, anche nel proprio ambiente di lavoro, attiva nel cervello le stesse aree attivate dal dolore fisico, come mostra l’immagine.

aree attivate nel cervello da diversi comportamenti

Non trovo nient’altro da dire, questa lettera è talmente forte che parla da sé. E voi? Avete mai provato questa sensazione? Vi ritrovate nelle risposte che ci danno le neuroscienze? Fatemi sapere la vostra nei commenti.