“Da quando è arrivato questo nuovo capo le cose sono cambiate: io, per esempio, che ero abituata ad un atteggiamento collaborativo, peraltro condiviso da tutti, mi sto rintanando: ho deciso di fare un passo indietro e di rimanere più sulle mie. Ieri, per esempio, alla presentazione al Convegno, il nostro nuovo capo ha deciso, senza dare spiegazioni, di portare solo due persone del gruppo che ha lavorato. E tra l’altro è già la seconda volta che porta loro ad incontri importanti e non capisco perché visto che il lavoro è di tutti”.

Equità e giustizia producono sul nostro cervello  gli stessi effetti che avrebbe assaporare una  tavoletta di cioccolato,  il nostro gelato preferito e  persino vincere soldi: quando siamo in presenza di proposte considerate giuste od eque per noi (ma anche per altri), nel nostro cervello si attiva il  “Reward system”, collegato al piacere e alla motivazione, lo stesso che si attiva, appunto,  col cioccolato e con i riconoscimenti.

Al contrario, la percezione di ingiustizia, ritenere inique decisioni che ci riguardano, sistemi retributivi o organizzativi, condizioni professionali o opportunità, di base incide sull’engagement, la motivazione e la dedizione al lavoro: si è stimato che questo riduce del 20% la produttività e accresce assenteismo e turnover.

Essere trattati in modo ingiusto diminuisce esponenzialmente la partecipazione attiva e motivata al lavoro e sembra che questo innato senso di giustizia sia strettamente connesso a meccanismi di sopravvivenza della nostra specie volta,  per natura, ad attivare comportamenti che  rinforzano la connessione con altri e con gruppi.

Siamo cablati per essere sociali e per rimanere connessi: comportamenti che mettono a rischio la connessione sociale sono quindi istintivamente e fisiologicamente considerati pericolosi e dolorosi. Dunque,  l’ingiustizia subita e anche  procurata si patisce perché  mina le fondamenta della società sana, connessa e alimentata dalla fiducia.