Facebook sta diventando un campo minato e le mail una battaglia navale: devi incrociare fortuitamente diverse condizioni per ottenere delle risposte utili e per schivare missili di parole infuocate. Un’aggressività in eccesso sembra emergere dai social: insulti lanciati come coriandoli, epiteti ed etichette a pioggia, troll nascosti tra le pieghe delle discussioni, in cui l’utente disarmato si trova ad esercitare l’arte dello slalom, zigzagando tra bandierine di follia disseminate qua e là.
Il neologismo webeti, descrive precisamente quello che il neuroscienziato tedesco Spitzer ha ampiamente illustrato nel suo libro “demenza digitale”: l’uso della tecnologia ci può rendere dei dementi. E ormai sono molte le ricerche che vanno in questa direzione, dimostrando che l’uso in eccesso di media digitali rende il cervello incapace di produrre concentrazione, scoraggia studio, apprendimento, riflessione e approfondimento.
Questo è quello che rischia di accadere all’area cognitiva dell’homo digital medio. Ma non è tutto: non sono solo le aree deputate alle cosiddette funzioni esecutive e di pensiero logico quelle che vengono depredate da possibilità di sviluppo, sono anche le aree “sociali”, che servono appunto per vivere in relazione con i vicini di scrivania, con il compagno, i figli e il resto dell’umanità in generale. Le conseguenze le vediamo riverberate nelle parole di odio e totale mancanza di empatia che esprime il frequentatore medio dei social, qualsiasi sia il tema toccato.
Che cosa scatena tutto questo livore?
LA PREDISPOSIZIONE NATURALE NON BASTA PER LO SVILUPPO DELLE CAPACITÀ DI RELAZIONE
Così come siamo predisposti per il linguaggio o per la deambulazione, il cervello è predisposto alla socializzazione. Ma così come imparare a parlare non è automatico e per farlo occorre interagire in modo stimolante col mondo, anche per lo sviluppo dell’empatia e delle capacità sociali occorre interagire “face to face” con gli altri, stando con persone in carne ed ossa.
Le ricerche stanno dimostrando che i diversi apparati predisposti dal nostro cervello per interagire empaticamente col mondo, i famosi neuroni specchio che sono distribuiti in varie parti del nostro cervello e che sono quelli che ci permettono di sintonizzarci con le emozioni altrui, si sviluppano e crescono in presenza degli altri e reagiscono ad un nostro simile ma molto meno ad uno schermo.
L’empatia ci consente di sentire in noi quello che l’altro sente e di comprendere, non razionalmente, bensì emotivamente, ciò che sta accadendo all’interlocutore, perché dentro di noi sta avvenendo qualcosa di analogo: grazie a questo rispecchiamento, possiamo riuscire a essere permeabili anche agli interessi dell’altro. Ma perché ciò accada occorre la presenza: il sorriso contagia e anche il dolore si avverte stando a contatto con il dolore e se la specie umana ha mantenuto questa abilità è perché probabilmente ha una funzione centrale per la sopravvivenza della specie.
Il contagio emotivo è quello che spinge ad essere curiosi e interessati verso gli altri, a capirne meglio le condizioni e ad andare oltre i confini dei propri interessi ed obiettivi, a prendere decisioni sospinti da emozioni, con la partecipazione del sistema limbico, perché senza il suo coinvolgimento ogni decisione verrebbe trattata dal nostro cervello come un problema di matematica, anche quando questioni complesse richiederebbero capacità di immedesimarsi profondamente nelle situazioni per comprenderne tutte le varabili in gioco, comprese quelle emotive.
Lo schermo scherma da tutto questo, così come le etichette appiccicate a persone e situazioni bloccano e tolgono vitalità all’empatia: smettiamo di essere in contatto con l’altro ma lo siamo con l’etichetta che abbiamo dato (e quindi ancora con noi). Tutto questo può generare crudeltà, da un lato, e solitudine dall’altro.
AL LAVORO RISORSE (MENO) UMANE
Al lavoro e per lavoro emettiamo e riceviamo un quantitativo di mail infinito, abbiamo contatti WhatsApp, siamo costantemente asserragliati dietro lo schermo del pc o dello smartphone e gli effetti che tutto questo produce sono “distanza” ed auto-centratura. Alimentando la distanza, aumenta la difficoltà a collaborare, a lavorare in sintonia con i colleghi o con i reparti diversi, a percepire l’obiettivo di chi sta dietro ad un altro schermo come parte del proprio obiettivo, a interagire emotivamente con l’interesse dell’altro, compresi i clienti, e comprenderne più a fondo le motivazioni. Diminuiscono le possibilità di alleggerire il clima, trovare soluzioni e sistemare le controversie guardandosi in faccia. Ma soprattutto si innalzano barriere, paure, difese e si amplificano emozioni negative verso chi viene considerato “out-group”.
Gli antidoti e le strategie per rimettere al centro delle relazioni l’umano interagire, accanto alla tecnologia, insieme al tema dell’empatia digitale, saranno probabilmente una delle sfide del prossimo futuro sia da un punto di vista tecnologico che formativo, se non altro per scongiurare malattie mentali e fisiche.
Nel frattempo le organizzazioni possono incrementare i momenti e gli eventi relazionali non finalizzati, al fine di favorire processi di avvicinamento e socializzazione e sperimentarsi sul tema dell’empatia con interventi formativi ed esperienziali per allenare questa splendida facoltà mentale che rende l’essere umano, per l’appunto, umano, e vivo!