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Incontro stimolante ieri alla Casa della Psicologia con il Dr. Seghezzi, DG di ADAPT, per discutere del ruolo dello Psicologo nell’industria 4.0:  in definitiva,dove starà l’“umano” nell’industria iper-connessa? Che ruolo avrà e cosa potrà servirgli per mantenersi in grado di apprendere “in situazione di compito” e di cambiare al ritmo di rock, salvaguardando anche, a Dio piacendo, la buona salute psicologica e fisica?

Industria 4.0 (per gli americani “Industrial Internet of things”)  significa industria aperta, connessa in tutte le direzioni e con il consumatore, centrata apparentemente sul prodotto ma fortemente sbilanciata a favore di un servizio – cordone ombelicale – che manterrà collegati consumatore e azienda  in una spirale armonica di reciproco stimolo e crescita, sintonizzati come ballerini in un passo di danza a due.

Appare chiaro dall’intervento che né le future evoluzioni né, tantomeno,  gli impatti organizzativi di tutto ciò siano ancora stati immaginati:  il sistema potrebbe svilupparsi configurando e plasmando mondi organizzativi diversi, alcuni decisamente più positivi di altri (per il povero Homo Sapiens). Ma è altrettanto chiaro che la stessa organizzazione dovrà mantenersi estremamente flessibile per generare tutta questa capacità di innovazione e di risposta “sincronizzata” perché sarà necessario, dicono le previsioni,  poter contare su un sistema che generi solide relazioni tra  partner, alimenti fiducia,  favorisca apertura mentale, reattività, creatività, capacità di imparare, fallire  e cambiare in situazioni di compito.

Il tessuto connettivo dell’Industria 4.0 dovrà essere costituito da fluidità e sinergia d’azione, ricettività agli stimoli, attitudine alla condivisione e leadership collaborativa e distribuita.

E il povero Homo Sapiens, in tutto questo, di cosa avrà bisogno per mantenersi in cotanta forma fisica, emotiva e mentale?

Da un punto di vista psicologico, quali potranno essere gli strumenti adatti a favorire uno sviluppo armonico del sistema, una buona convivenza tra uomo e tecnologia, un Homo Sapiens destinato a sopravvivere a quest’era, che non venga sopraffatto da quel che gli accade intorno e che, in definitiva, a fronte di un industria 4.0, sappia sfoderare un bell’Homo 5.0 senza colpo ferire?  Come evolverà o si ridurrà la psiche umana in questo processo evolutivo e quali semi andranno innestati perché il processo non diventi involutivo?

Tenendo conto che le “hard skill” saranno soggette a veloce obsolescenza e che qualsiasi competenza tecnica scadrà alla stessa velocità dello yogurt fuori dal frigo, converrà puntare su un’attitudine mentale adatta a governare il cambiamento, gestirlo, starci dentro e anche fuori, fondandosi su buone soft skill.

E i temi su cui focalizzarsi, da parte di psicologi e trainer, potrebbero forse essere i seguenti:

  1. Affrontare la paura: di quel che accadrà, di non farcela, di non essere abbastanza adeguati e preparati, la paura di decidere, di essere esclusi, di inciampare e restare a terra, la paura dello sconosciuto e persino delle caramella dallo sconosciuto. Lavorare sugli antidoti: condividere le paure alleggerisce i climi, nominare le emozioni negative ne riduce l’impatto fisiologico e psicologico. Prepariamoci ad affrontarla, la paura che serpeggia crea devastazioni, resistenze, limita le risorse cognitive e creative, fa perdere concentrazione, sbilancia e alimenta conflittualità, sfiducia e fantasmi. Promuovere intelligenza emotiva e capacità di condividere e ascoltare i mille volti delle paure. Perché, diciamoci la verità, tutto questo cambiamento, a molti, un po’ fa paura..
  1. Favorire la capacità di apprendere in campo: il cambiamento sarà costante, continuo e la necessità di cambiare in corsa, indispensabile. Un processo che potrebbe diventare generativo e virtuoso ma che potrebbe diventare anche fonte di stress continuo. Occorre allenare sia la capacità di imparare la conoscenza del proprio limite al cambiamento possibile per mantenere il rispetto di sé.
  1. Continuous feedback”: favorire il confronto, il feed-back e il dialogo costruttivo tra pari e tra livelli diversi per diventare lavorare come un tutt’uno, come il cervello, che mantiene unità d’azione integrando le differenze. Il feedback generativo favorisce evoluzione del singolo e del sistema al tempo stesso.
  1. Limitare l’impatto dello stress e imparare a gestire non solo lo stress ma soprattutto le richieste esagerate del sistema che vorrebbe l’Homo Sapiens al servizio dell’evoluzione della tecnologia! Alleniamo la capacità di ribaltare il paradigma dove possibile.
  1. Promuovere l’inclusione: molti sono i soggetti a rischio di esclusione da un sistema che si muove su un binario ad alta velocità. L’esclusione, nel nostro cervello, attiva gli stessi network del dolore e può provocare effetti devastanti sia sui singoli che sull’organizzazione. Dobbiamo individuare strumenti per favorire e alimentare inclusione all’interno delle organizzazioni stesse.
  1. Insegnare la resilienza: la capacità di fallire e di ripartire. Dopo l’esperienza di fallimento, una delle differenze tra chi cade e rimane a terra e chi invece si rialza, sta nella capacità di elaborare il fallimento traendone insegnamento, apprendimento, essendo capaci di riconoscere gli effetti trasformativi.
  1. Leadership collaborativa e distribuita: senza ruolo formale sarà più difficile ottenere consenso, ma sarà così che funzionerà. La leadership sarà trasversale, laterale, esterna, interna: la capacità di comunicare, influenzare, essere ricettivi, anziché rigidi, di avere impatto ma di farsi anche “impattare” da contributi e stimoli altrui e punti di vista diversi sarà il sale dell’evoluzione.
  1. Capacità di decidere, velocemente, che vuol dire affrontare ancora una volta la paura di sbagliare, di assumersi responsabilità e del fallimento,  gestire le emozioni e conoscere i bias decisionali.
  1. Empatia e social brain, intelligenza relazionale: il nostro cervello ci consegna un patrimonio straordinario da questo punto di vista, anche se gli ingegneri e gli economisti a volte dimenticano di sfruttarne le potenzialità. Grande lavoro da fare per insegnare la sintonizzazione umana, l’ascolto e la condivisione sia face to face che in remoto. Lavorare sull’empatia digitale.

Questi sono alcuni dei temi che mi sono stati sollecitati dall’intervento, naturalmente ce ne saranno anche altri. In tutto questo, le ricerche in ambito neuroscientifico ci aiutano a capire meglio come funziona il nostro cervello di fronte all’incertezza e al cambiamento e come favorire apprendimento ed engagement. Questo sta semplificando molto le soluzioni che possiamo portare in campo e in aula, anche se l’aula non sarà più probabilmente quella di una volta!