Questo post è apparso sulla rivista Direzione del Personale – AIDP – nel 2018.
Sull’onda della snervante attesa che questa nuova era Data-Driven faccia il suo ingresso travolgente nel mondo del lavoro e ne riconfiguri le basi, l’HR Global Summit di The European House – Ambrosetti affronta alcuni temi del rapporto tra Intelligenza Artificiale ed HR.
Iniziamo con due buone notizie. La prima è che il futuro è già presente e, nonostante forme di AI siano già operative nelle nostre organizzazioni e in alcuni processi HR, non ci siano stati ancora, per il momento, bruschi stravolgimenti, anzi in molti casi l’integrazione sembra essere persino positiva.
La seconda è che l’AI svolgerà alcune importanti funzioni HR meglio dell’Homo Sapiens, per esempio diagnosticare velocemente e con irrilevanti margini di errore o fornire incontrovertibili elementi di supporto decisionale, ma altre funzioni ed attività (per il momento) non possono essere sostituite (respiro di sollievo).
La notizia che non sappiamo ancora se catalogare tra quelle buone o quelle cattive è che, essendo questa quarta rivoluzione industriale in fase nascente, nessuno sa ancora dove ci porterà esattamente e che piega potrà prendere. Si aprono diversi scenari di possibile collaborazione Essere- umano-in-carne-ed-ossa/AI, alcuni più promettenti e altri meno. Non è ancora chiaro nemmeno quale delle due parti condurrà il gioco relazionale e chi dovrà adattarsi a chi.
Mentre ascolto, per esempio, mi rendo conto che l’utilizzo di Linkedin, per chi desideri mettersi sul mercato del lavoro, implica la capacità di ragionare come ragiona l’algoritmo sottostante. Per essere individuati dai recruiter, si deve imparare velocemente (noi umani) ad adattare la nostra presentazione, lo stile e le parole scelte, alla capacità di elaborazione della macchina. In questo caso siamo 1 a 0 per l’intelligenza artificiale.
L’Homo Sapiens si ristruttura e riorganizza mentalmente per essere compreso dall’algoritmo. Forse Dante non avrebbe passato la selezione come copy. La facilità con la quale si interagisce con questi strumenti può far dimenticare che dietro a ogni tasto esiste un modello di mondo, un modo di guardare e costruire realtà. Quali saranno i presupposti impliciti alla base del funzionamento degli algoritmi e quali potrebbero essere i bias nell’algoritmo che, estesi su larga scala, comporterebbero conseguenze spiacevoli? Ma questo è un altro tema.
BERNARD MARR: DATA-DRIVEN HR
Tra gli interventi da segnalare all’interno del Summit, merita quello di Bernard Marr che presenta il suo libro Data Driven HR (Kogan Page, 2018). Marr ha una competenza decisamente tecnologica che si associa a un linguaggio e a una forma espressiva umana e rassicurante: filtrata da lui, la tecnologia del futuro assume una fisiologia attraente e meno minacciosa. Ci ingaggia immediatamente illustrando i diversi fronti di possibile intersezione tra processi HR e intelligenza artificiale e portando alcuni esempi già operativi. Sia il suo intervento che il libro aiutano a comprendere quale sia la natura del contributo apportato dalla tecnologia e come la mole di dati di cui si dispone può essere elaborata da sistemi di AI.
Fondamentalmente nel mondo HR sono tre le aree su cui si focalizza, sia nel suo libro che nel suo intervento: il decision making in generale, la relazione con i propri clienti-dipendenti e l’ottimizzazione di alcuni processi.
Decision Making Data-Driven
Finalità dell’applicazione dell’AI a quest’area è costruire culture “decision-making data-based” che sostituiscano decisioni fondate su intuizioni, sensazioni e all’applicazione del “si è sempre fatto così”. Principalmente, sono due i filoni chiave a cui applicare nuove metodologie decisionali in ambito HR.
• Il primo riguarda la possibilità di effettuare performance review e processi di recruitment più smart, ad esempio decidere i criteri curriculari su cui fondare l’individuazione e la scelta di candidati per specifici ambiti professionali. In tale direzione si è mossa un’importante azienda di servizi finanziari che ha cambiato i propri criteri di recruitment dopo aver analizzato le performance dei dipendenti nei primi due anni dopo l’assunzione. Ha quindi correlato questi dati con quelli relativi ai criteri tradizionalmente adottati nella fase di recruitment, cioè voto di diploma/laurea e istituto/college di provenienza, e rilevato velocemente la scarsa correlazione tra il successo nelle performance e questi fattori. È stato di conseguenza cambiato il processo di selezione, tolta importanza all’istituto di provenienza e ai voti e dato peso invece al successo in un’attività lavorativa effettuata dopo il diploma. In sei mesi questa scelta ha dimostrato di essere efficace e il suo impatto è stato registrato direttamente sull’incremento di fatturato.
• Il secondo ambito di applicazione dell’analisi di dati al processo decisionale ha a che fare con la verifica preventiva delle reazioni, degli effetti e degli umori che alcune decisioni desterebbero, attraverso app in grado di rilevare in tempo reale lo stato d’animo delle persone. Le decisioni esemplificate, sui cui effetti potrebbe essere utile indagare in anticipo, vanno dall’introduzione di menù particolari in mensa, per esempio vegano, alla qualità della comunicazione ricevuta rispetto a una recente fusione o a un cambiamento in corso.
Capire il cliente-dipendente
Così come per l’area commerciale è indispensabile comprendere i propri clienti e la loro percezione del prodotto, anche per l’HR, i cui clienti interni sono i dipendenti, è possibile effettuare indagini in tempo reale per comprendere il livello di engagement, di felicità/benessere o sicurezza percepita, al fine di offrire un migliore servizio.
Internamente, alcuni strumenti di rilevazione dei dati “pulse”, come anche alcune app, consentono oggi di fare in tempo reale e giornalmente quello che una volta era affidato a indagini di clima periodiche o a survey su fattori collegati alla motivazione, al benessere e allo stress. È quindi possibile attraverso poche domande periodiche o quotidiane mantenere il controllo diretto delle situazioni e del tipo di energia che si sviluppa in certe fasi di vita organizzativa.
Esternamente, l’analisi dei dati consente invece di analizzare e comprendere, ad esempio, quale sia la percezione del brand nei principali social per coglierne l’attrattività o eventualmente aggiustare il tiro per catturare i talenti.
Ottimizzare i processi HR
Un’ultima area esaminata da Marr rispetto all’utilizzo dei dati nel mondo HR è fornita dalla possibilità di individuare, anche all’interno di tradizionali processi, in quale parte venga speso più tempo o dedicato maggior sforzo. L’analisi dei dati può favorire una veloce identificazione delle aree di miglioramento e di ottimizzazione e consentire di valutare cosa eventualmente automatizzare. Sono diversi gli esempi riportati all’interno del processo di reclutamento e selezione.
Un altro e importantissimo ambito di applicazione è quello che riguarda benessere e sicurezza e, in questo campo, alcuni strumenti sono già in uso. Possono essere quindi analizzati e monitorati dati ambientali attraverso rilevatori di umidità, barometri, registratori di temperatura o dati relativi allo stato fisico delle persone che lavorano in certi ambiti, per esempio la rilevazione della frequenza cardiaca per misurare lo stress da esposizione al calore. Infine, sono in continuo aumento gli studi e le applicazioni con finalità legate alla sicurezza dei dipendenti.
Cosa ci rimane?
Al termine del suo intervento, rivolgiamo a Marr alcune domande, per tentare di capire quale sia la sua opinione, oltre ai fatti, sull’evoluzione che ci attende.
“A mio parere, il punto è trovare un equilibrio tra quello che le macchine sanno fare bene e lo human touch. Ci sono delle cose che l’intelligenza artificiale sa fare bene ma ce ne sono altre, che hanno a che fare con la creatività, l’intuizione, l’empatia, l’interpretazione dei dati e il problem solving che al momento non possono essere rimpiazzate”. Bisogna puntare quindi allo sviluppo di queste capacità.
Come HR, dovremmo forse sviluppare un atteggiamento più confidenziale con i dati e maggiore capacità di usarli e di leggerli, oltre a scegliere di diventare amici dei nostri colleghi AI, coi quali dobbiamo imparare a collaborare.
In conclusione, cosa rimane all’essere-umano- in-carne-ed-ossa? Probabilmente la spinta motivazionale. Anche se le macchine sanno ormai anche identificare le emozioni, manca loro la capacità di sentire le emozioni, che è la principale e più potente leva che spinge l’uomo in carne ed ossa ad agire, cambiare, reagire, scegliere, decidere, creare, improvvisare e persino scappare. Dato che questo all’AI ancora manca, forse abbiamo ancora ampi spazi di lavoro.